Tutto cambia, nulla cambia, l’analisi degli storici versi “Addio, sporca Russia” di Mikhail Lermontov

Sul punto di essere esiliato, nel 1840, Mikhail Lermontov, scriveva questi storici versi, che sono entrati nell’immaginario collettivo del popolo russo e della sua cultura:

Прощай, немытая Россия,
Страна рабов, страна господ,
И вы, мундиры голубые,
И ты, послушный им народ.
Быть может, за стеной Кавказа
Укроюсь от твоих пашей,
От их всевидящего глаза,
От их всеслышащих ушей.


(Михаил Лермонтов, 1840)
Ascolta la poesia, declamata in versione originale

Addio sporca Russia,
Paese di schiavi, paese di padroni,
E voi, uniformi azzurre *,
e tu, popolo che li ascolta.

Forse dietro le mura del Caucaso
mi nasconderò dai tuoi pascià,
dai loro occhi che tutto vedono,
dalle loro orecchie che tutto ascoltano.

* si riferisce al colore delle uniformi della polizia, che perseguitava il popolo n.d.r.

Lermontov era personaggio scomodo. Veniva dalla cultura romantica, che in Russia arrivò con un'”ondata” successiva al Romanticismo europeo occidentale. Il che non vuol dire che gli esponenti del romanticismo russo fossero inferiori, come statura lirica, a quelli del Romanticismo tedesco (su tutti, ovviamente Johann Wolfgang von Goethe, Friedrich von Schiller e Heinrich von Kleist).

Anche il Romanticismo italiano arrivò in ritardo, rispetto a quello originario tedesco, ma anche in Italia abbiamo avuto esponenti che sono entrati nell’Olimpo della letteratura mondiale universale (Leopardi, Foscolo).

Ma torniamo a Lermontov. Dicevo, personaggio scomodo, si diceva allora scapigliato (“spettinato”, la parola deriva dall’opposizione al termine di “parruccone”, che invece rappresentava gli illuministi settecenteschi delle persone che indossavano le parrucche incipriate).

Amori passionali con le donne “sbagliate” (magari donne di uomini potenti), deluso dalla vita, lasciato solo e abbandonato dagli amici. Perseguitato dal potere, che non aveva piacere a vedere questi scapigliati che “pretendevano” di fare i poeti e gli intellettuali “bohémiens”.

Il potere decide di esiliare il poeta nel Caucaso. È il 1841. Poco dopo il poeta morirà, ma farà appena in tempo a lasciarci questi versi che sono, ancora oggi, tremendamente attuali.

Il potere russo, dato dal dispotismo delle “divise azzurre”, la polizia. L’identificazione dello stato russo, come un colosso dai piedi di argilla, che non è nemmeno in grado di “arginare” (leggasi, controbattere con argomenti circostanziati) le critiche di un giovane poeta intellettuale, se non quello di mettere a tacere la sua voce dissonante. Insomma, in otto versi c’è la sintesi della Russia dall’Ottocento a oggi.

La metafora della “Russia sporca”, che rappresenta il paese contadino, provinciale, che dà sempre retta al potere e vive la sua vita a prescindere da chi comanda a San Pietroburgo (ieri) e a Mosca (oggi). Un paese che non può essere “ripulito”, e che quindi è sporco, dal giogo secolare della schiavitù (ieri) e della genuflessione indiscriminata al potere (oggi). Non solo nell’esteriorità delle condizioni di vita, ma anche nell’anima. In questo paese sono tutti schiavi: dai contadini, ai poliziotti, che s’inchinano ai superiori e a loro volta vessano i sudditi, perseguitandoli e sfogando su di loro le loro repressioni. L’assenza di volto e la rigidità della società russa sono enfatizzate dall’uso della metonimia (si indica la parte per il tutto). Invece della frase “gendarmi in uniforme azzurre”, il poeta usa l’espressione “uniformi azzurre”, indicando che nella società russa la persona umana è praticamente distrutta, ridotta alla posizione occupata dall’uno o dall’altro suddito di Sua Maestà lo Zar di tutte le Russie.

Un’altra immagine evocativa è quella dei Pascià, che stanno a indicare la profonda anima orientale che è insita nella cultura russa, ma anche il despotismo che contraddistingue chi domina (ieri e oggi).

Nella poesia, che è costruita secondo il classico tetrametro giambico della poesia russa, c’è l’allitterazione della lettera “r”, che denota la rabbia del poeta, il suo tormento e la sua delusione. Pochi mesi dopo aver scritto questa poesia, Lermontov morirà infatti in esilio nel Caucaso.

Per ovvie ragioni di censura, la poesia di Lermontov non fu mai pubblicata, né nei pochi mesi in cui il poeta rimase in vita, né dopo, postuma (la pubblicazione ufficiale è del 1887, cioè 46 anni dopo la morte del poeta). Tuttavia questi versi si diffusero lo stesso rapidamente tra i giovani intellettuali degli anni Quaranta dell’Ottocento, che criticavano il regime dispotico zarista, come spesso accadde, e accade ancora oggi, nel caratteristico tam tam russo che si diffonde sotto la melma della “nomenklatura” di tutte le epoche (dall’epoca sovietica a oggi).

Tanto per dire, quarant’anni fa erano le canzoni di Bulat Okudzhava (che io ho studiato all’Università) e quelle di Vladimir Vysockij, che tutti i russi conoscevano, salvo poi bisbigliarsele nelle serate con la chitarra, specie se c’erano i vicini di casa che origliavano dalle pareti (di cartone) delle case sovietiche piene di tarakany, i proverbiali scarafaggi di cinque centimetri che ti correvano sul piatto della doccia in qualsiasi casa sovietica.

Ma la poesia di Lermontov, nel denunciare la propria delusione, grida ad alta voce l’amore sincero per la Russia come Madre, la sua natura, la sua bellezza e i suoi costumi: Lermontov fu un fervente patriota, nonostante i suoi rapporti con le autorità.

L’eroe lirico della poesia è triste e deluso, è perso e oppresso. Una sorprendente antitesi è il confronto tra la Russia “sporca” e l’orgoglioso Caucaso libero. La Patria meritava un epiteto così offensivo, perché impantanata in menzogne, servitù, denunce e servilismo.

Due sole quartine sono capaci di riassumere un’intera epoca (e anche il presente) e una descrizione della società dell’Ottocento. Nella prima strofa il poeta dice addio a tutto ciò che lo infastidisce, in questi versi si sentono dolore e delusione. Nella seconda strofa, l’eroe lirico esprime una vaga speranza di trovare il suo posto “dietro le mura del Caucaso”, dove non c’è una disgustosa visione del mondo e le fondamenta caratteristiche di Mosca e San Pietroburgo (“occhi onniveggenti e orecchie che ascoltano tutto”).

Tutti i russi, dal primo all’ultimo, conoscono questi versi, ancora oggi. Quando si dice che la poesia è immortale, si dice una verità universale. A maggior ragione se in otto versi si riesce a condensare l’anima e la storia di un popolo, un governo e una nazione. Attraverso i secoli.