Non ci inventiamo nulla, nemmeno nel 2022. Tutte le emozioni, tutte le sensazioni provate da un essere umano hanno già trovato espressione nel passato.
L’esperienza interiore della battaglia è stata descritta subito dopo la Prima Guerra Mondiale da Ernst Jünger, in un libriccino di cento pagine, “La battaglia come esperienza interiore” (titolo originale: “Der Kampf als inneres Erlebnis”, 1922) o poco più che è disponibile anche su Amazon.
È il libro di un ufficiale dell’esercito imperiale germanico, l’autore, appunto. Uscito fresco, fresco a pochi anni di distanza dalla disfatta tedesca nella Grande Guerra, è un libro caleidoscopico, descrittivo degli stati d’animo di un soldato (colto, già scrittore prima che iniziasse la guerra e decidesse di partire volontario per il fronte). Il linguaggio è crudo, non volutamente crudele, solo asetticamente descrittivo, ma estremamente eloquente di ciò che significa ritrovarsi in guerra.
Pensavamo tutti che certe descrizioni potessero appartenere al passato, quantomeno in Europa, anche se alla fine dello scorso secolo, la guerra in Bosnia ci aveva già dato una dimostrazione di che cosa significhi assuefarsi alle fosse comuni e ai massacri. Ma tralasciando il passato, in questi mesi stiamo rivivendo sul suolo europeo le stesse descrizioni, che ci vengono fatte dai grandi giornalisti, inviati sul territorio, come Lorenzo Cremonesi, Francesca Mannocchi e altri ancora.
In questi giorni mi viene in mente che i ragazzi del battaglione Azov sono asserragliati all’interno dei sotterranei dell’acciaieria Azovstal, fino a poco tempo fa la più grande acciaieria d’Europa e che oggi potrebbe diventare la nuova Srebrenica di inizio secolo, come già Bucha, solo poche settimane fa.
Ernst Jünger ci descrive i momenti prima dell’assalto, le battute scherzose tra i soldati, la sensazione di cameratismo che fa stringere legami profondi con altri giovani uomini che potrebbero scomparire dopo soli cinque minuti. Jünger ci descrive l’odore del sangue, gli schizzi, la cedevolezza dei cadaveri in putrefazione sotto gli stivali, mentre si cammina sul terreno fangoso.
L’accerchiamento. L’essere ormai in trappola, proprio come sta accadendo in queste ore ai ragazzi del battaglione Azov. Senza nemmeno poter combattere, con quel grido atroce che prelude la battaglia, perché i soldati nemici hanno deciso di assediarli per fame, secondo metodi medievali che pensavamo ormai appartenenti al passato.
Doniamo un solo pensiero ai ragazzi della Azov, che sono asserragliati all’interno dell’acciaieria e aspettano solo il loro Destino. Certo, i morti stanno da entrambe le parti, e i morti in battaglia sono comunque sangue che cola di giovani uomini, mandati a morire, sia che siano dalla parte dei vittoriosi, che degli sconfitti.
Ma non si può non stare dalla parte di chi è stato aggredito vigliaccamente, dopo che il dittatore Putin ha deciso di prendersi gioco del mondo interno, compreso dei suoi soldati.
Prendo spunto dall’editoriale di Limes, nel numero di febbraio 2022, che proprio all’inizio della guerra ha stilato un azzeccato parallelo tra gli azzardi di Putin e quelli raccontati nella famosa opera di Aleksandr Pushkin, “La dama di picche”, scritta nel 1833, dal grande scrittore di San Pietroburgo.
La prosa asciutta, quasi asettica di Pushkin, quasi l’autore fosse uscito dalla redazione locale di cronaca nera, ci fa ancora stupire della grandezza di questo autore, che è ascritto a monumento universale della letteratura russa, il primo dei “mostri sacri” della letteratura della “Matjushka Rossija”.
Il suo modo di descrivere trame condite da fantasticheria (il sogno della contessa di Hermann) con una fattualità improntata da grande realismo, fanno di Pushkin un “mostro” della letteratura universale. Pushkin riesce a scandagliare l’animo umano, con anche una fattualità giocosa, che descrive da un lato la realtà dell’alta società russa e dall’altro mette a nudo le ambizioni di un giovane (Hermann, il protagonista di origine tedesca), che è disposto a mettere in gioco tutto, pur di diventare ricco.
Come finisce, si sa. Hermann finisce pazzo in un ospedale e ripete le fatidiche parole che lo hanno portato all’autodistruzione della propria vita: “tre, sette, asso… tre, sette, dama”.
Ma torniamo alla lettura più semplice e intuitiva della storia:
La prima lezione ci dice che le persone non devono andare alla ricerca di facili guadagni di denaro. La prima lettura che si può dare dell’opera è quella più semplice e didascalica: Pushkin è semplicissimo nella sua lettura e nella sua comprensione. Lo capiscono anche i bambini. Inoltre il suo stile “piano”, scorre via liscio come l’olio, il problema è trovare una traduzione degna di questo nome. Posso dire che sono stato fortunato ad averlo potuto leggere in lingua russa ai tempi dell’Università.
La seconda lezione che ci dà Pushkin è quella di non fare affidamento sul Destino, perché il Destino, quello con la “D” maiuscola, non lo possiamo guidare, ma è lui che si prende gioco di noi. È una visione deterministica e fatalista, condivisibile o meno, ma sappiamo anche che la Storia della Russia e l’Anima del popolo russo sono sempre state dominate da una visione del Fato che comanda su tutto (solo all’epoca del socialismo sovietico la propaganda introdusse il Mito dell’Uomo che trionfa sul Fato e si fa da sé e costruisce il Bene).
La terza lezione che ci dà Pushkin con quest’opera, implicita, non detta, ma sottintesa, è che il percorso verso l’indipendenza materiale deve essere onesto. Le qualità delle persone non sono misurate dai soldi che possiedono, ma dalla grandezza d’animo. Purtroppo ne “La dama di picche”, nessuno ne esce fuori bene, né la vecchia contessa, frequentatrice dei salotti sbarazzini dell’alta società e che vorrebbe tornare ai vecchi fasti del passato; né Lizaveta Ivanovna (Liza) che, alla fin fine, introduce dentro casa della contessa un emerito sconosciuto, restando “abbagliata” da un facile amorino con Hermann che non si consumerà.
L‘ultima lezione che ci dà Pushkin è quella della pochezza del protagonista, che si trova accidentalmente a provocare la morte della contessa, si trova quindi invischiato in un gioco che si sta a poco a poco ingrossando, senza che lui lo abbia voluto, ma che ormai è entrato nel vortice della perversa anelazione senza scrupoli per il denaro, che poi lo porterà alla pazzia. Ovviamente Pushkin, nel mettere in rilievo la pochezza di Hermann, ce ne dà un giudizio implicito ben preciso e didattico.
Nella storia, il tema della giustizia è centrale. Si potrebbe dire: la qualità di quello che raccogli è dato da quello che semini. Ma c’è anche il tema del misticismo. La magia delle carte e l’affidarsi al Caso è un gioco pericoloso.
E veniamo al collegamento con l’attualità, che è stato ripreso anche dall’editoriale di Limes che ho citato all’inizio di questo post.
L’avidità distrugge il mondo interiore del protagonista. La sete di ricchezza lo spinge alle gesta più terribili: inganno, ipocrisia, minacce e omicidio. Finirà pazzo, ok, ma nel frattempo che cosa ha seminato? Morte e distruzione per nulla.
Ci ricorda qualcuno o qualcosa che abbia attinenza con le cronache attuali?
E qui do un breve ricordo del mio professore di letteratura russa, Igor Shankowskij, che tra l’altro era ucraino. Sebbene riuscii a superare i suoi esami di letteratura russa per il rotto della cuffia, cosa ben nota a chi mi conosce, ho un bellissimo ricordo delle sue lezioni e della sua voce, a parte il fumo di sigarette, tipo Nazionali, che spargeva per la piccola aula al piano terra della mia facoltà universitaria. Ricordo la sua risata greve e chiassosa, quando lanciava i suoi strali contro tutto e contro tutti, riferendosi al paese di origine (allora l’U.R.S.S.).
Chissà che cosa direbbe oggi Igor di quello che sta accadendo nel suo paese di origine. Chissà che cosa direbbe di Putin, della guerra. Chissà dov’è Igor oggi. Grazie per avermi insegnato alcune cose, che io sto riscoprendo solo adesso con il tempo che passa.
Sul punto di essere esiliato, nel 1840, Mikhail Lermontov, scriveva questi storici versi, che sono entrati nell’immaginario collettivo del popolo russo e della sua cultura:
Addio sporca Russia, Paese di schiavi, paese di padroni, E voi, uniformi azzurre *, e tu, popolo che li ascolta.
Forse dietro le mura del Caucaso mi nasconderò dai tuoi pascià, dai loro occhi che tutto vedono, dalle loro orecchie che tutto ascoltano.
* si riferisce al colore delle uniformi della polizia, che perseguitava il popolo n.d.r.
Lermontov era personaggio scomodo. Veniva dalla cultura romantica, che in Russia arrivò con un'”ondata” successiva al Romanticismo europeo occidentale. Il che non vuol dire che gli esponenti del romanticismo russo fossero inferiori, come statura lirica, a quelli del Romanticismo tedesco (su tutti, ovviamente Johann Wolfgang von Goethe, Friedrich von Schiller e Heinrich von Kleist).
Anche il Romanticismo italiano arrivò in ritardo, rispetto a quello originario tedesco, ma anche in Italia abbiamo avuto esponenti che sono entrati nell’Olimpo della letteratura mondiale universale (Leopardi, Foscolo).
Ma torniamo a Lermontov. Dicevo, personaggio scomodo, si diceva allora scapigliato (“spettinato”, la parola deriva dall’opposizione al termine di “parruccone”, che invece rappresentava gli illuministi settecenteschi delle persone che indossavano le parrucche incipriate).
Amori passionali con le donne “sbagliate” (magari donne di uomini potenti), deluso dalla vita, lasciato solo e abbandonato dagli amici. Perseguitato dal potere, che non aveva piacere a vedere questi scapigliati che “pretendevano” di fare i poeti e gli intellettuali “bohémiens”.
Il potere decide di esiliare il poeta nel Caucaso. È il 1841. Poco dopo il poeta morirà, ma farà appena in tempo a lasciarci questi versi che sono, ancora oggi, tremendamente attuali.
Il potere russo, dato dal dispotismo delle “divise azzurre”, la polizia. L’identificazione dello stato russo, come un colosso dai piedi di argilla, che non è nemmeno in grado di “arginare” (leggasi, controbattere con argomenti circostanziati) le critiche di un giovane poeta intellettuale, se non quello di mettere a tacere la sua voce dissonante. Insomma, in otto versi c’è la sintesi della Russia dall’Ottocento a oggi.
La metafora della “Russia sporca”, che rappresenta il paese contadino, provinciale, che dà sempre retta al potere e vive la sua vita a prescindere da chi comanda a San Pietroburgo (ieri) e a Mosca (oggi). Un paese che non può essere “ripulito”, e che quindi è sporco, dal giogo secolare della schiavitù (ieri) e della genuflessione indiscriminata al potere (oggi). Non solo nell’esteriorità delle condizioni di vita, ma anche nell’anima. In questo paese sono tutti schiavi: dai contadini, ai poliziotti, che s’inchinano ai superiori e a loro volta vessano i sudditi, perseguitandoli e sfogando su di loro le loro repressioni. L’assenza di volto e la rigidità della società russa sono enfatizzate dall’uso della metonimia (si indica la parte per il tutto). Invece della frase “gendarmi in uniforme azzurre”, il poeta usa l’espressione “uniformi azzurre”, indicando che nella società russa la persona umana è praticamente distrutta, ridotta alla posizione occupata dall’uno o dall’altro suddito di Sua Maestà lo Zar di tutte le Russie.
Un’altra immagine evocativa è quella dei Pascià, che stanno a indicare la profonda anima orientale che è insita nella cultura russa, ma anche il despotismo che contraddistingue chi domina (ieri e oggi).
Nella poesia, che è costruita secondo il classico tetrametro giambico della poesia russa, c’è l’allitterazione della lettera “r”, che denota la rabbia del poeta, il suo tormento e la sua delusione. Pochi mesi dopo aver scritto questa poesia, Lermontov morirà infatti in esilio nel Caucaso.
Per ovvie ragioni di censura, la poesia di Lermontov non fu mai pubblicata, né nei pochi mesi in cui il poeta rimase in vita, né dopo, postuma (la pubblicazione ufficiale è del 1887, cioè 46 anni dopo la morte del poeta). Tuttavia questi versi si diffusero lo stesso rapidamente tra i giovani intellettuali degli anni Quaranta dell’Ottocento, che criticavano il regime dispotico zarista, come spesso accadde, e accade ancora oggi, nel caratteristico tam tam russo che si diffonde sotto la melma della “nomenklatura” di tutte le epoche (dall’epoca sovietica a oggi).
Tanto per dire, quarant’anni fa erano le canzoni di Bulat Okudzhava (che io ho studiato all’Università) e quelle di Vladimir Vysockij, che tutti i russi conoscevano, salvo poi bisbigliarsele nelle serate con la chitarra, specie se c’erano i vicini di casa che origliavano dalle pareti (di cartone) delle case sovietiche piene di tarakany, i proverbiali scarafaggi di cinque centimetri che ti correvano sul piatto della doccia in qualsiasi casa sovietica.
Ma la poesia di Lermontov, nel denunciare la propria delusione, grida ad alta voce l’amore sincero per la Russia come Madre, la sua natura, la sua bellezza e i suoi costumi: Lermontov fu un fervente patriota, nonostante i suoi rapporti con le autorità.
L’eroe lirico della poesia è triste e deluso, è perso e oppresso. Una sorprendente antitesi è il confronto tra la Russia “sporca” e l’orgoglioso Caucaso libero. La Patria meritava un epiteto così offensivo, perché impantanata in menzogne, servitù, denunce e servilismo.
Due sole quartine sono capaci di riassumere un’intera epoca (e anche il presente) e una descrizione della società dell’Ottocento. Nella prima strofa il poeta dice addio a tutto ciò che lo infastidisce, in questi versi si sentono dolore e delusione. Nella seconda strofa, l’eroe lirico esprime una vaga speranza di trovare il suo posto “dietro le mura del Caucaso”, dove non c’è una disgustosa visione del mondo e le fondamenta caratteristiche di Mosca e San Pietroburgo (“occhi onniveggenti e orecchie che ascoltano tutto”).
Tutti i russi, dal primo all’ultimo, conoscono questi versi, ancora oggi. Quando si dice che la poesia è immortale, si dice una verità universale. A maggior ragione se in otto versi si riesce a condensare l’anima e la storia di un popolo, un governo e una nazione. Attraverso i secoli.
Il 5 marzo 2022 si è celebrato sulle terze pagine di tutti i quotidiani italiani il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, uno dei più lucidi intellettuali del Novecento italiano.
Personaggio scomodo, per tutti. Oggi si direbbe un “pensatore laterale”: atipico, non ascrivibile, sfuggente; sui generis, impossibile catalogarlo, nonostante abbia avuto una storia che partiva dalla sinistra intellettuale (ma, come noto, espulso e ripudiato dal Partito Comunista).
Era un marxista segnato da un’educazione cattolica, sempre dalla parte dei deboli e degli sconfitti. Era un mistico, che si sentiva sconfitto dalla realtà alienante dei media e del capitalismo. Sulle distorsioni del capitalismo arrembante aveva capito tutto, trent’anni prima dei movimenti no global di fine millennio e poi dei populismi di tutti gli schieramenti politici di inizio del nuovo millennio.
Era iperdotto e sapeva di esserlo, si nutriva di letteratura, di poesia, di pittura, di cinema. Le inquadrature dei suoi film sono impregnate dei corsi di storia dell’arte che seguì a Bologna all’università, tenuti dal prof. Roberto Longhi e che parlavano di Masolino da Panicale e Masaccio.
È stato il più potente degli ossimori del Novecento italiano, per taluni insopportabile. Le sue partecipazioni televisive sono ancora oggi oggetto di culto su YouTube, parole che sono capaci di sferzare i presenti come una lama di coltello affilata. Riusciva a parlare di tutto, mescolando arti, generi, epoche, spaziando da una metafora sulla civiltà inca del Seicento per arrivare a un quadro surrealista, con una capacità di irretire chi lo ascoltava che non aveva pari. Poteva essere timido e irraggiungibile, spavaldo e timido, aggressivo, poi umile ed egocentrico.
Fisico asciutto, addominali scolpiti, ipercurato, un fascio di nervi di salute, sempre alla moda, girava per Roma a bordo della sua Alfa Romeo Duetto Spider, era appassionato e giocava benissimo a calcio. Ironia della sorte, morì ucciso in circostanze mai chiarite, in un campetto da calcio di Ostia. Quando ci fu quel delitto, mi ricordo della notizia data, anche se ero un bambino. I ricordi di averlo visto in TV da bambino sono stati cementati in seguito da canali televisivi come RaiTeche e RaiStoria e, successivamente, anche su YouTube, dove ci sono dei bellissimi documenti che tutti dovrebbero vedere.
All’Università lo traducevo in tedesco, dall’italiano. I suoi “Scritti corsari” fanno parte della piccola biblioteca che mi ha cambiato la vita e in questo periodo mi è venuta voglia di scoprire nuove pagine, come “Descrizioni di descrizioni”.
Lo struggente ricordo di Nanni Moretti in “Caro diario”, me lo fece riscoprire dopo qualche anno.
Gli articoli che scrisse per il Corriere della Sera sono nella Storia di questo Paese, tra i quali il famosissimo “Io so”, che spiegava la strategia della tensione con parole che sconvolsero l’opinione pubblica come un cazzotto nello stomaco (coi soliti “benpensanti” che lo denigravano come complottista).
Chissà che cosa direbbe oggi Pasolini sullo stato attuale del mondo. Chissà che cosa direbbe oggi della pandemia, della guerra di Putin contro l’Ucraina.
Sta a noi tenere vivo il suo ricordo. Quest’anno ci sono svariate mostre e celebrazioni in tutta Italia, soprattutto a Bologna, sua città natale e dove studiò all’Università, e nel suo amato Friuli, a Casarsa, dove esiste una casa museo, Casa Colussi, casa natale di sua madre, Susanna Colussi, dove Pasolini visse dal 1942 fino al 1950 e dove passava le vacanze estive.
Vicino a Orte, a Soriano nel Cimino, vicino a Bomarzo, c’è la casa che fu il suo “buen retiro”, dove scrisse le sue pagine più belle e dove nacquero i suoi film. Luoghi poco conosciuti e che dobbiamo invece riscoprire tutti quanti, perché facenti parte della Storia di una delle menti più lucide della Cultura italiana del Novecento.
È morta il 2 febbraio 2022 Monica Vitti, una delle più grandi attrici del cinema italiano dal Dopoguerra a oggi. Aveva 90 anni. La notizia è su tutti i media.
Non avendo più partecipato a trasmissioni televisive da 20 anni circa, quindi dai primi anni Duemila, la stragrande maggioranza dei giovani italiani non sa nemmeno chi sia.
A questo punto, il problema da porsi, è come mai un certo cinema, considerato d’antan, sia sparito dal piccolo schermo. Non sono bastati i pur lodevoli canali supplementari Rai, tipo RaiMovie o RaiPremium, a non far sparire dal circuito nazionale i capolavori del nostro cinema.
È un peccato, per non dire di peggio, che le televisioni siano ancorate ad un modello legato ad ascolti per tutte le ragioni che sappiamo (introiti pubblicitari, spettacolarizzazione degli show e dei talk-show, creazione di risse aggratis).
Tra l’altro sappiamo benissimo chi, come, quando e perché ha creato un certo modello di diffusione televisiva, al quale, volente o nolente, mamma RAI ha dovuto adattarsi.
Poi però non meravigliamoci che la Cultura Italiana, in questo caso cinematografica, sia destinata a scomparire o a cadere nell’oblio. Certo, la storia del cinema mondiale si ricorderà di questi mostri sacri italiani, a partire da Rossellini, Antonioni, per arrivare a tutti gli attori che hanno plasmato la nostra Cultura di un settantennio.
Con la scomparsa di Monica Vitti, mi pare, che non è rimasto più nessuno di questi mostri sacri.
RaiMovie ha un palinsesto sicuramente di nicchia e lodevole. Anche Rai5 propone film molto validi per chi ha la passione di guardare del cinema di qualità sul servizio pubblico e non vuole “piegarsi” alle logiche dei pacchetti a pagamento.
L’augurio che possiamo farci, come italiani e sostenitori della Cultura, è quello che mamma Rai potenzi il servizio dedicato alla Qualità e magari istituisca dei canali supplementari dove si possano vedere i capolavori del cinema italiano, ma non solo (penso anche al cinema francese o ad altri generi, come il cinema d’essai). Tra l’altro col nuovo digitale, si libereranno giusto appunto svariate frequenze, che potranno lasciare spazio alla creazione di nuovi canali del digitale terrestre. Il canone lo paghiamo tutti. Che si diano una mossa, prima che finiamo a vedere tutti quanti Checco Zalone (con tutto rispetto, per carità, ci vuole anche quello, ma non solo).