Perché non andrò a votare ai referendum sulla giustizia

facsimile scheda elettorare referendum 12 giugno 2022 giustizia

Premetto che sono del segno zodiacale della Bilancia e credo nel fondo di verità che sta dietro all’influsso degli astri sulle persone (se la luna influenza i raccolti, le semine, l’ululato del lupo, perché i pianeti non dovrebbero influire su di noi?). Tra l’altro siamo fatti al 60% di acqua e i pianeti hanno influsso sulle maree. Quindi per me non ci sono dubbi.

Come noto, la Bilancia è il segno zodiacale per antonomasia di coloro che aspirano al senso della giustizia. E del resto la bilancia, intesa come strumento per pesare gli oggetti, è anche il simbolo della giustizia per antonomasia.

Con questo non voglio dare ricette spicciole, ma proprio per questa ragione, ci tenevo a dire che non sono un superficiale e che anzi, la Giustizia, quella con la G maiuscola è un fondamento della civiltà e del quieto buon vivere nella comunità civile e umana.

Questo post non è però polemico (in pieno “stile Bilancia”).

Anzi, sarò breve e circostanziato. I referendum del 12 giugno sulla giustizia sono troppo complessi per essere risolti da un voto di persone che non siano addetti ai lavori. E questo per tante ragioni. Non solo perché noialtri non ne capiamo nulla di giustizia, sul piano tecnico, e tutti gli slogan del Sì o del No sono solamente delle mere semplificazioni un tanto al chilo.

Secondariamente, è la politica, quella che, sulla carta, dovrebbe essere “alta” e nobile, a doversene occupare, senza per questo dover “disturbare” noi cittadini, che appunto non ne capiamo nulla dell’argomento.

Personalmente, mi occupo di marketing digitale, com’è noto. Ho una piccola startup locale che si chiama Pistakkio, ed è attiva in tutta la Regione Toscana. Se mi si domanda che strategie e tattiche si possano o si debbano attuare per migliorare il posizionamento di un sito web, allora sono nel mio campo e posso rispondere. Viceversa, questi referendum mi sembrano un modo, da parte dei partiti e di chi ha proposto i referendum, per lavarsi le mani con l’argomento, demandare le decisioni ad altri ed evitare il compromesso (all’insegna di una non meglio identificata “purezza” o, se ribaltiamo la frittata, “celodurismo”).

La politica è compromesso per definizione (e qui torna il mio essere profondamente Bilancia). Se non si vuole accondiscendere a compromessi, per voler dare in pasto alla propria base elettorale di essere puri e indefessi, allora non si fa politica, bensì propaganda. E io alla propaganda non rispondo, anche perché conosco bene, da addetto di marketing, i meccanismi che si nascondono dietro al marketing, anche elettorale.

Non parlo dei 600 e rotti milioni di euro di spesa inutile per organizzare i referendum, perché scadrei nel populismo.

Che se la risolvano loro, i politici. E dico questo, non per qualunquismo, ma perché è il loro lavoro. Così come quando un mio Cliente mi domanda di risolvergli un problema sul suo sito web.

PS = non andrò nemmeno al mare. Anzi, probabilmente lavorerò!

L’esperienza interiore della battaglia da assediato

la copertina del libro di ernst jünger, la battaglia come esperienza interiore, 1922 Piano B

Non ci inventiamo nulla, nemmeno nel 2022. Tutte le emozioni, tutte le sensazioni provate da un essere umano hanno già trovato espressione nel passato.

L’esperienza interiore della battaglia è stata descritta subito dopo la Prima Guerra Mondiale da Ernst Jünger, in un libriccino di cento pagine, “La battaglia come esperienza interiore” (titolo originale: “Der Kampf als inneres Erlebnis”, 1922) o poco più che è disponibile anche su Amazon.

È il libro di un ufficiale dell’esercito imperiale germanico, l’autore, appunto. Uscito fresco, fresco a pochi anni di distanza dalla disfatta tedesca nella Grande Guerra, è un libro caleidoscopico, descrittivo degli stati d’animo di un soldato (colto, già scrittore prima che iniziasse la guerra e decidesse di partire volontario per il fronte). Il linguaggio è crudo, non volutamente crudele, solo asetticamente descrittivo, ma estremamente eloquente di ciò che significa ritrovarsi in guerra.

Pensavamo tutti che certe descrizioni potessero appartenere al passato, quantomeno in Europa, anche se alla fine dello scorso secolo, la guerra in Bosnia ci aveva già dato una dimostrazione di che cosa significhi assuefarsi alle fosse comuni e ai massacri. Ma tralasciando il passato, in questi mesi stiamo rivivendo sul suolo europeo le stesse descrizioni, che ci vengono fatte dai grandi giornalisti, inviati sul territorio, come Lorenzo Cremonesi, Francesca Mannocchi e altri ancora.

In questi giorni mi viene in mente che i ragazzi del battaglione Azov sono asserragliati all’interno dei sotterranei dell’acciaieria Azovstal, fino a poco tempo fa la più grande acciaieria d’Europa e che oggi potrebbe diventare la nuova Srebrenica di inizio secolo, come già Bucha, solo poche settimane fa.

La battaglia rientra nelle grandi passioni. Devo ancora vedere qualcuno che non si lasci scombussolare dal momento del trionfo. Sarà così anche domani, quando, dopo una breve lotta all’ultimo sangue, dopo aver scatenato strumenti raffinatissimi, dopo aver messo in campo le forze gigantesche di cui è capace l’uomo moderno, fisseremo il brulichio della forra. Allora sì che uscirà dalla bocca spalancata di uno di noi quel grido folle e protratto che ci è spesso riecheggiato nelle orecchie. È un canto antico e tremendo, che risale all’alba dell’uomo: nessuno avrebbe mai pensato che fosse ancora così vivo in noi.

Ernst Jünger ci descrive i momenti prima dell’assalto, le battute scherzose tra i soldati, la sensazione di cameratismo che fa stringere legami profondi con altri giovani uomini che potrebbero scomparire dopo soli cinque minuti. Jünger ci descrive l’odore del sangue, gli schizzi, la cedevolezza dei cadaveri in putrefazione sotto gli stivali, mentre si cammina sul terreno fangoso.

L’accerchiamento. L’essere ormai in trappola, proprio come sta accadendo in queste ore ai ragazzi del battaglione Azov. Senza nemmeno poter combattere, con quel grido atroce che prelude la battaglia, perché i soldati nemici hanno deciso di assediarli per fame, secondo metodi medievali che pensavamo ormai appartenenti al passato.

A testa alta, lasciamo sventolare i nostri pensieri al vento. Morire come si deve, questo sì che lo possiamo fare: andare incontro al buio minaccioso con audacia battagliera ed energia vitale. Non lasciarsi spiazzare, sorridere fino alla fine e che il sorriso sia la nostra maschera. È già qualcosa.

Il massimo per l’essere umano è morire da valoroso. Gli dèi immortali devono invidiarlo per questo.

Doniamo un solo pensiero ai ragazzi della Azov, che sono asserragliati all’interno dell’acciaieria e aspettano solo il loro Destino. Certo, i morti stanno da entrambe le parti, e i morti in battaglia sono comunque sangue che cola di giovani uomini, mandati a morire, sia che siano dalla parte dei vittoriosi, che degli sconfitti.

Ma non si può non stare dalla parte di chi è stato aggredito vigliaccamente, dopo che il dittatore Putin ha deciso di prendersi gioco del mondo interno, compreso dei suoi soldati.

Perché rileggere “La dama di picche” di Pushkin può aiutarci a capire l’attualità della guerra russa in Ucraina

la dama di picche di pushkin come metafora dell'attualità

Prendo spunto dall’editoriale di Limes, nel numero di febbraio 2022, che proprio all’inizio della guerra ha stilato un azzeccato parallelo tra gli azzardi di Putin e quelli raccontati nella famosa opera di Aleksandr Pushkin, “La dama di picche”, scritta nel 1833, dal grande scrittore di San Pietroburgo.

Non vi starò a raccontare e a spiegare la trama dell’opera. Posso solo mettervi il link tratto da Wikipedia, così andate a leggere di che cosa tratta e tutta la bellissima storia. Ho trovato in rete un’interessante analisi psicologica de “La dama di picche”, a cura di Erica Klein, che vi suggerisco di leggere.

La prosa asciutta, quasi asettica di Pushkin, quasi l’autore fosse uscito dalla redazione locale di cronaca nera, ci fa ancora stupire della grandezza di questo autore, che è ascritto a monumento universale della letteratura russa, il primo dei “mostri sacri” della letteratura della “Matjushka Rossija”.

Il suo modo di descrivere trame condite da fantasticheria (il sogno della contessa di Hermann) con una fattualità improntata da grande realismo, fanno di Pushkin un “mostro” della letteratura universale. Pushkin riesce a scandagliare l’animo umano, con anche una fattualità giocosa, che descrive da un lato la realtà dell’alta società russa e dall’altro mette a nudo le ambizioni di un giovane (Hermann, il protagonista di origine tedesca), che è disposto a mettere in gioco tutto, pur di diventare ricco.


“Tre, sette, asso…

Tre, sette, dama…”

Come finisce, si sa. Hermann finisce pazzo in un ospedale e ripete le fatidiche parole che lo hanno portato all’autodistruzione della propria vita: “tre, sette, asso… tre, sette, dama”.

Ma torniamo alla lettura più semplice e intuitiva della storia:

  • La prima lezione ci dice che le persone non devono andare alla ricerca di facili guadagni di denaro. La prima lettura che si può dare dell’opera è quella più semplice e didascalica: Pushkin è semplicissimo nella sua lettura e nella sua comprensione. Lo capiscono anche i bambini. Inoltre il suo stile “piano”, scorre via liscio come l’olio, il problema è trovare una traduzione degna di questo nome. Posso dire che sono stato fortunato ad averlo potuto leggere in lingua russa ai tempi dell’Università.
  • La seconda lezione che ci dà Pushkin è quella di non fare affidamento sul Destino, perché il Destino, quello con la “D” maiuscola, non lo possiamo guidare, ma è lui che si prende gioco di noi. È una visione deterministica e fatalista, condivisibile o meno, ma sappiamo anche che la Storia della Russia e l’Anima del popolo russo sono sempre state dominate da una visione del Fato che comanda su tutto (solo all’epoca del socialismo sovietico la propaganda introdusse il Mito dell’Uomo che trionfa sul Fato e si fa da sé e costruisce il Bene).
  • La terza lezione che ci dà Pushkin con quest’opera, implicita, non detta, ma sottintesa, è che il percorso verso l’indipendenza materiale deve essere onesto. Le qualità delle persone non sono misurate dai soldi che possiedono, ma dalla grandezza d’animo. Purtroppo ne “La dama di picche”, nessuno ne esce fuori bene, né la vecchia contessa, frequentatrice dei salotti sbarazzini dell’alta società e che vorrebbe tornare ai vecchi fasti del passato; né Lizaveta Ivanovna (Liza) che, alla fin fine, introduce dentro casa della contessa un emerito sconosciuto, restando “abbagliata” da un facile amorino con Hermann che non si consumerà.
  • L‘ultima lezione che ci dà Pushkin è quella della pochezza del protagonista, che si trova accidentalmente a provocare la morte della contessa, si trova quindi invischiato in un gioco che si sta a poco a poco ingrossando, senza che lui lo abbia voluto, ma che ormai è entrato nel vortice della perversa anelazione senza scrupoli per il denaro, che poi lo porterà alla pazzia. Ovviamente Pushkin, nel mettere in rilievo la pochezza di Hermann, ce ne dà un giudizio implicito ben preciso e didattico.

Nella storia, il tema della giustizia è centrale. Si potrebbe dire: la qualità di quello che raccogli è dato da quello che semini. Ma c’è anche il tema del misticismo. La magia delle carte e l’affidarsi al Caso è un gioco pericoloso.

E veniamo al collegamento con l’attualità, che è stato ripreso anche dall’editoriale di Limes che ho citato all’inizio di questo post.

L’avidità distrugge il mondo interiore del protagonista. La sete di ricchezza lo spinge alle gesta più terribili: inganno, ipocrisia, minacce e omicidio. Finirà pazzo, ok, ma nel frattempo che cosa ha seminato? Morte e distruzione per nulla.

Ci ricorda qualcuno o qualcosa che abbia attinenza con le cronache attuali?

E qui do un breve ricordo del mio professore di letteratura russa, Igor Shankowskij, che tra l’altro era ucraino. Sebbene riuscii a superare i suoi esami di letteratura russa per il rotto della cuffia, cosa ben nota a chi mi conosce, ho un bellissimo ricordo delle sue lezioni e della sua voce, a parte il fumo di sigarette, tipo Nazionali, che spargeva per la piccola aula al piano terra della mia facoltà universitaria. Ricordo la sua risata greve e chiassosa, quando lanciava i suoi strali contro tutto e contro tutti, riferendosi al paese di origine (allora l’U.R.S.S.).

Chissà che cosa direbbe oggi Igor di quello che sta accadendo nel suo paese di origine. Chissà che cosa direbbe di Putin, della guerra. Chissà dov’è Igor oggi. Grazie per avermi insegnato alcune cose, che io sto riscoprendo solo adesso con il tempo che passa.