A dieci anni dal terremoto della Bassa Modenese, non è tutto rose e fiori

la chiesa del voto di modena in via emilia centro dopo il terremoto del 29 maggio 2012

Sono passati già dieci anni. E meno male che stiamo in salute, e che possiamo raccontarla. Sia di quanto accadde dieci anni fa, sia per quanto attiene ai commenti dell’anniversario a cifra tonda. Primo punto.

La prima scossa 5.9 (era 6.1, ma fu ridotta dall’INGV per pagare meno danni) delle 4,02 di notte del 20 maggio 2012 coglie di sorpresa tutti i cittadini della Bassa Modenese e coinvolge anche il capoluogo, dove io ho abitato per diciotto anni, fino al 2013.

Come ricorderà chi era a Modena quel weekend, era un sabato mattina. La sera precedente, quindi venerdì sera fino a notte fonda, c’era stata La Notte Bianca, se non ricordo male secondo esperimento del genere nella città che è stata la mia casa per tanti anni. Ma il primo esperimento della Notte Bianca dell’anno precedente era stato poco seguito, mentre quel secondo anno, ci fu un grande successo.

Io ero stato in giro fino alle 3 di notte e ricordo una città viva, spumeggiante, come lo spumantino o prosecchino che scorreva tra le piazze ricolme di giovani, concertini per strada e nelle piazze. Modenesi e persone arrivate dalle città circostanti, città piena e finalmente una manifestazione che non aveva visto incidenti e i soliti scemi che si mettevano a “giocare” con i cocci delle bottiglie di vetro (come invece accadeva puntualmente tutti i Capodanni in Piazza Grande).

Voglio dire, io ero modenese, seppur di adozione. Diciotto anni non sono bruscolini e, tra l’altro, vivevo in pieno centro storico.

Essendo andato a letto alle 3 di notte, avevo appena preso sonno. Dopo un’ora, alle 4,02, mi svegliai di soprassalto, col letto che vibrava e si spostava. Mi alzai di scatto andai in sala e accesi la luce e vidi i contrafforti del mio appartamento, vibrare forte, come fossero di cartongesso. Stabile in pieno centro storico, costruito nel 1621 (c’è la targa, ancora oggi). Per fortuna restò tutto in piedi, anche se avemmo danni per una dozzina di migliaia di euro alle scale interne condominiali. Tanta paura. E poi le successive scosse “di assestamento”, che arrivavano a 4.0 e oltre, tutti i giorni.

La sommità della Chiesa del Voto di Modena, in Via Emilia Centro, dopo il terremoto del 29 maggio 2012

Il 29 maggio, nove giorni dopo, la scossa ancora più tremenda, almeno per chi stava a Modena, perché ancora più vicina al capoluogo, quella delle nove precise del mattino. Venne giù la palla della Chiesa del Voto, in Via Emilia Centro. Sfiorò una signora, poteva essere una strage, andò bene.

Da allora, passai svariate notti nel mio garage, rannicchiato nel bagagliaio della mia piccola 500, dopodiché, decisi di tornare per un periodo in Toscana.

Il terremoto della Bassa Modenese però fu anche uno spartiacque dal punto di vista della percezione della comunità emiliana di fronte ai prevedibili problemi che ci furono nella ricostruzione. Non è questa la sede per parlare di politica, nemmeno in senso lato, e anche se nel decimo anniversario del sisma modenese sentiremo parlare della tradizionale efficienza emiliana, col faccione del presidente della Regione che s’intesterà trionfalismi, poi se vai a parlare con la gente del posto, ancora oggi, ti ridono in faccia: ci sarà pure una ragione per cui da allora la “sinistra” fa sì e no fatica a raggranellare i suoi voti (e in numerosi comuni abbia ceduto lo scettro del potere, cosa un tempo impensabile).

E questo non è un giudizio, ma pura analisi.

Gilles Villeneuve e quella riunione col Drake, prima dell’ultimo Gran Premio di Zolder

GIlles Villeneuve, in una pausa ai box del Gran Premio di Montecarlo

Nei giorni scorsi, l’8 maggio 2022, si è celebrato il 40° anniversario della scomparsa di Gilles Villeneuve, grande e indimenticato pilota della Ferrari di fine anni Settanta e inizio anni Ottanta.

Scompariva in un venerdì anonimo di primavera uno dei più grandi piloti della storia della Formula 1. È sempre difficile fare classifiche, soprattutto quando si comparano sportivi che hanno gareggiato in epoche diverse su mezzi diversi e la stessa cosa vale anche per altri sport, come ad es. il calcio, dove ancora si dibatte se Maradona sia davvero stato meglio di Pelé. Non sarò certo io a dipanare le dispute, né peraltro sono un pilota, tale da poter giudicare la tecnica di guida di questo o quell’altro pilota.

Ho però letto e sentito racconti di prima mano, anche dal vivo, di persone che hanno conosciuto di persona Gilles, come tutti i veri ferraristi lo chiamavano e lo chiamano ancora oggi. Di Gilles ce n’è stato solo uno e non ce ne sarà mai nessun altro, quantomeno nei cuori di tutti i tifosi della “rossa”.

Di lui si è detto che era spericolato, tant’è vero che il suo soprannome era “l’Aviatore”, perché più di una volta era letteralmente volato non solo sull’asfalto, ma anche sopra l’asfalto. Quando il Destino è beffardo, capita che riservi dei veri e propri appuntamenti con la Storia e l’ironia della sorte volle che quell’8 maggio di quarant’anni fa, l’8 maggio 1982, Villeneuve prendesse il volo, prima con la sua auto, che tamponò Jochen Mass, che si era spostato sulla destra per farlo passare durante le prove, poi essendo sbalzato fuori dall’abitacolo dell’auto, per atterrare sulle reti metalliche di protezione del circuito di Zolder.

Su questo, come su altri incidenti fatali nel mondo della Formula 1, se ne sono dette di tutti i colori, finanche incolpare il povero Mass, che aveva vistosamente rallentato, poiché aveva già completato il suo giro di qualifica (cosa che oggi sarebbe fuori regolamento, il rallentare di colpo anche durante le prove) e poi si spostò sulla destra per far passare Villeneuve, che invece era in piena bagarre per ottenere la pole position.

Erano altri tempi. Sono tutti filmati che abbiamo visto alla Domenica Sportiva, ma con le immagini del dopo incidente oscurate dalla RAI di allora. E anche le prove, a quei tempi, non venivano trasmesse in diretta televisiva, come oggi. La notizia arrivò nel pomeriggio, per poi diffondersi capillarmente col passaparola. Solo alla sera il telegiornale dette la notizia ufficiale, ma senza speciali TV, senza rallentatori dei filmati, senza moviola, senza interviste. Ripeto, erano altri tempi e solo pochi anni dopo, il 2 maggio 1994, vedemmo una copertura mediatica per l’incidente mortale di Senna del tutto diversa e già globalizzata.

Pochi sanno però che dopo il Gran Premio di Imola, quello precedente di Zolder, dove poi Villeneuve perse la vita, ci fu un incontro il lunedì mattina tra Villeneuve, Jody Scheckter e il Drake, alias Enzo Ferrari a Maranello.

Si discusse il celebre episodio in cui Pironi sorpassò Villeneuve, contravvenendo agli ordini della scuderia di Maranello, con quel famoso cartello “Slow”, che fu da tutti interpretato come “mantenere le posizioni” (con Villeneuve davanti e Pironi dietro), mentre l’unico che fece finta di non capirlo fu proprio il pilota parigino, che superò Villeneuve e creò una delle più grandi diatribe della storia della Formula 1 degli ultimi cinquant’anni. Anche per come andarono poi le cose, appunto.

Quanto fosse deluso Villeneuve dopo quel Gran Premio è cosa nota ed è stata ricordata da numerosi documentari che hanno rievocato sia la carriera di Gilles, che il suo abbraccio col Destino su quella rete metallica.

Ma l’incontro “chiarificatore” col Drake è un episodio a cui molti non danno peso, nel giudicare lo stato d’animo di Gilles prima di Zolder, perché Ferrari alle rimostranze di Gilles, spalleggiato dall’ex compagno di squadra Scheckter, rispose con le celebri parole:

“Chi ha vinto a Imola? Una Ferrari?
A me sta bene così”

(Enzo Ferrari, dopo il Gran Premio di Imola 1982)

Che Enzo Ferrari abbia sempre pensato sempre e solo alla Ferrari e mai ai piloti è cosa arcinota, tant’è vero che per altre ragioni, ma similari, se sottintendiamo l’egoismo del Drake, anche Niki Lauda fece le spese di questo carattere come minimo ruvido del Cavaliere di Modena.

Ok, siamo al senno di poi e al fantacorse. Ma quanto ebbe influenza, nel cuore di Gilles, quella risposta di Ferrari che lo fece sentire tradito per la seconda volta, dopo il tradimento di Pironi? Per di più ad opera di chi lo doveva difendere, quando anche tutta la scuderia aveva dato l’ordine di mantenere le posizioni acquisite?

Difficile dire come si potesse sentire Gilles. Tradito, umiliato e offeso. Lui che quando era la seconda guida di Scheckter aveva sempre rispettato i patti, da “bravo ragazzo” acqua e sapone e ora, che era diventata la prima guida della Ferrari, era costretto a sopportare le bizze di un giovane pilota rampante e di buona famiglia, come Pironi, e a subire la reprimenda del Cavaliere, a cui interessava solo della macchina, dimenticando l’Uomo Gilles.

Siegfried Stohr ricorda l’episodio della riunione tra il Drake e Gilles

Non ci sono risposte per questi dubbi. Restano due considerazioni.

La prima è che quello che tutti dicono ancora oggi di Gilles è che era un Uomo ricco di Valori, di Onore, di Lealtà, quasi un samurai d’altri tempi.

La seconda è che Ferrari tutto questo stinco di santo non era. Che ha pensato sempre e solo alla Ferrari e mai si è messo nei panni dei suoi piloti, che considerava solo delle pedine.

Personalmente è un buon motivo per far scendere Enzo Ferrari dall’Olimpo delle glorificazioni dello sport italiano.

L’esperienza interiore della battaglia da assediato

la copertina del libro di ernst jünger, la battaglia come esperienza interiore, 1922 Piano B

Non ci inventiamo nulla, nemmeno nel 2022. Tutte le emozioni, tutte le sensazioni provate da un essere umano hanno già trovato espressione nel passato.

L’esperienza interiore della battaglia è stata descritta subito dopo la Prima Guerra Mondiale da Ernst Jünger, in un libriccino di cento pagine, “La battaglia come esperienza interiore” (titolo originale: “Der Kampf als inneres Erlebnis”, 1922) o poco più che è disponibile anche su Amazon.

È il libro di un ufficiale dell’esercito imperiale germanico, l’autore, appunto. Uscito fresco, fresco a pochi anni di distanza dalla disfatta tedesca nella Grande Guerra, è un libro caleidoscopico, descrittivo degli stati d’animo di un soldato (colto, già scrittore prima che iniziasse la guerra e decidesse di partire volontario per il fronte). Il linguaggio è crudo, non volutamente crudele, solo asetticamente descrittivo, ma estremamente eloquente di ciò che significa ritrovarsi in guerra.

Pensavamo tutti che certe descrizioni potessero appartenere al passato, quantomeno in Europa, anche se alla fine dello scorso secolo, la guerra in Bosnia ci aveva già dato una dimostrazione di che cosa significhi assuefarsi alle fosse comuni e ai massacri. Ma tralasciando il passato, in questi mesi stiamo rivivendo sul suolo europeo le stesse descrizioni, che ci vengono fatte dai grandi giornalisti, inviati sul territorio, come Lorenzo Cremonesi, Francesca Mannocchi e altri ancora.

In questi giorni mi viene in mente che i ragazzi del battaglione Azov sono asserragliati all’interno dei sotterranei dell’acciaieria Azovstal, fino a poco tempo fa la più grande acciaieria d’Europa e che oggi potrebbe diventare la nuova Srebrenica di inizio secolo, come già Bucha, solo poche settimane fa.

La battaglia rientra nelle grandi passioni. Devo ancora vedere qualcuno che non si lasci scombussolare dal momento del trionfo. Sarà così anche domani, quando, dopo una breve lotta all’ultimo sangue, dopo aver scatenato strumenti raffinatissimi, dopo aver messo in campo le forze gigantesche di cui è capace l’uomo moderno, fisseremo il brulichio della forra. Allora sì che uscirà dalla bocca spalancata di uno di noi quel grido folle e protratto che ci è spesso riecheggiato nelle orecchie. È un canto antico e tremendo, che risale all’alba dell’uomo: nessuno avrebbe mai pensato che fosse ancora così vivo in noi.

Ernst Jünger ci descrive i momenti prima dell’assalto, le battute scherzose tra i soldati, la sensazione di cameratismo che fa stringere legami profondi con altri giovani uomini che potrebbero scomparire dopo soli cinque minuti. Jünger ci descrive l’odore del sangue, gli schizzi, la cedevolezza dei cadaveri in putrefazione sotto gli stivali, mentre si cammina sul terreno fangoso.

L’accerchiamento. L’essere ormai in trappola, proprio come sta accadendo in queste ore ai ragazzi del battaglione Azov. Senza nemmeno poter combattere, con quel grido atroce che prelude la battaglia, perché i soldati nemici hanno deciso di assediarli per fame, secondo metodi medievali che pensavamo ormai appartenenti al passato.

A testa alta, lasciamo sventolare i nostri pensieri al vento. Morire come si deve, questo sì che lo possiamo fare: andare incontro al buio minaccioso con audacia battagliera ed energia vitale. Non lasciarsi spiazzare, sorridere fino alla fine e che il sorriso sia la nostra maschera. È già qualcosa.

Il massimo per l’essere umano è morire da valoroso. Gli dèi immortali devono invidiarlo per questo.

Doniamo un solo pensiero ai ragazzi della Azov, che sono asserragliati all’interno dell’acciaieria e aspettano solo il loro Destino. Certo, i morti stanno da entrambe le parti, e i morti in battaglia sono comunque sangue che cola di giovani uomini, mandati a morire, sia che siano dalla parte dei vittoriosi, che degli sconfitti.

Ma non si può non stare dalla parte di chi è stato aggredito vigliaccamente, dopo che il dittatore Putin ha deciso di prendersi gioco del mondo interno, compreso dei suoi soldati.

Perché rileggere “La dama di picche” di Pushkin può aiutarci a capire l’attualità della guerra russa in Ucraina

la dama di picche di pushkin come metafora dell'attualità

Prendo spunto dall’editoriale di Limes, nel numero di febbraio 2022, che proprio all’inizio della guerra ha stilato un azzeccato parallelo tra gli azzardi di Putin e quelli raccontati nella famosa opera di Aleksandr Pushkin, “La dama di picche”, scritta nel 1833, dal grande scrittore di San Pietroburgo.

Non vi starò a raccontare e a spiegare la trama dell’opera. Posso solo mettervi il link tratto da Wikipedia, così andate a leggere di che cosa tratta e tutta la bellissima storia. Ho trovato in rete un’interessante analisi psicologica de “La dama di picche”, a cura di Erica Klein, che vi suggerisco di leggere.

La prosa asciutta, quasi asettica di Pushkin, quasi l’autore fosse uscito dalla redazione locale di cronaca nera, ci fa ancora stupire della grandezza di questo autore, che è ascritto a monumento universale della letteratura russa, il primo dei “mostri sacri” della letteratura della “Matjushka Rossija”.

Il suo modo di descrivere trame condite da fantasticheria (il sogno della contessa di Hermann) con una fattualità improntata da grande realismo, fanno di Pushkin un “mostro” della letteratura universale. Pushkin riesce a scandagliare l’animo umano, con anche una fattualità giocosa, che descrive da un lato la realtà dell’alta società russa e dall’altro mette a nudo le ambizioni di un giovane (Hermann, il protagonista di origine tedesca), che è disposto a mettere in gioco tutto, pur di diventare ricco.


“Tre, sette, asso…

Tre, sette, dama…”

Come finisce, si sa. Hermann finisce pazzo in un ospedale e ripete le fatidiche parole che lo hanno portato all’autodistruzione della propria vita: “tre, sette, asso… tre, sette, dama”.

Ma torniamo alla lettura più semplice e intuitiva della storia:

  • La prima lezione ci dice che le persone non devono andare alla ricerca di facili guadagni di denaro. La prima lettura che si può dare dell’opera è quella più semplice e didascalica: Pushkin è semplicissimo nella sua lettura e nella sua comprensione. Lo capiscono anche i bambini. Inoltre il suo stile “piano”, scorre via liscio come l’olio, il problema è trovare una traduzione degna di questo nome. Posso dire che sono stato fortunato ad averlo potuto leggere in lingua russa ai tempi dell’Università.
  • La seconda lezione che ci dà Pushkin è quella di non fare affidamento sul Destino, perché il Destino, quello con la “D” maiuscola, non lo possiamo guidare, ma è lui che si prende gioco di noi. È una visione deterministica e fatalista, condivisibile o meno, ma sappiamo anche che la Storia della Russia e l’Anima del popolo russo sono sempre state dominate da una visione del Fato che comanda su tutto (solo all’epoca del socialismo sovietico la propaganda introdusse il Mito dell’Uomo che trionfa sul Fato e si fa da sé e costruisce il Bene).
  • La terza lezione che ci dà Pushkin con quest’opera, implicita, non detta, ma sottintesa, è che il percorso verso l’indipendenza materiale deve essere onesto. Le qualità delle persone non sono misurate dai soldi che possiedono, ma dalla grandezza d’animo. Purtroppo ne “La dama di picche”, nessuno ne esce fuori bene, né la vecchia contessa, frequentatrice dei salotti sbarazzini dell’alta società e che vorrebbe tornare ai vecchi fasti del passato; né Lizaveta Ivanovna (Liza) che, alla fin fine, introduce dentro casa della contessa un emerito sconosciuto, restando “abbagliata” da un facile amorino con Hermann che non si consumerà.
  • L‘ultima lezione che ci dà Pushkin è quella della pochezza del protagonista, che si trova accidentalmente a provocare la morte della contessa, si trova quindi invischiato in un gioco che si sta a poco a poco ingrossando, senza che lui lo abbia voluto, ma che ormai è entrato nel vortice della perversa anelazione senza scrupoli per il denaro, che poi lo porterà alla pazzia. Ovviamente Pushkin, nel mettere in rilievo la pochezza di Hermann, ce ne dà un giudizio implicito ben preciso e didattico.

Nella storia, il tema della giustizia è centrale. Si potrebbe dire: la qualità di quello che raccogli è dato da quello che semini. Ma c’è anche il tema del misticismo. La magia delle carte e l’affidarsi al Caso è un gioco pericoloso.

E veniamo al collegamento con l’attualità, che è stato ripreso anche dall’editoriale di Limes che ho citato all’inizio di questo post.

L’avidità distrugge il mondo interiore del protagonista. La sete di ricchezza lo spinge alle gesta più terribili: inganno, ipocrisia, minacce e omicidio. Finirà pazzo, ok, ma nel frattempo che cosa ha seminato? Morte e distruzione per nulla.

Ci ricorda qualcuno o qualcosa che abbia attinenza con le cronache attuali?

E qui do un breve ricordo del mio professore di letteratura russa, Igor Shankowskij, che tra l’altro era ucraino. Sebbene riuscii a superare i suoi esami di letteratura russa per il rotto della cuffia, cosa ben nota a chi mi conosce, ho un bellissimo ricordo delle sue lezioni e della sua voce, a parte il fumo di sigarette, tipo Nazionali, che spargeva per la piccola aula al piano terra della mia facoltà universitaria. Ricordo la sua risata greve e chiassosa, quando lanciava i suoi strali contro tutto e contro tutti, riferendosi al paese di origine (allora l’U.R.S.S.).

Chissà che cosa direbbe oggi Igor di quello che sta accadendo nel suo paese di origine. Chissà che cosa direbbe di Putin, della guerra. Chissà dov’è Igor oggi. Grazie per avermi insegnato alcune cose, che io sto riscoprendo solo adesso con il tempo che passa.

Tutto cambia, nulla cambia, l’analisi degli storici versi “Addio, sporca Russia” di Mikhail Lermontov

Mikhail Lermontov

Sul punto di essere esiliato, nel 1840, Mikhail Lermontov, scriveva questi storici versi, che sono entrati nell’immaginario collettivo del popolo russo e della sua cultura:

Прощай, немытая Россия,
Страна рабов, страна господ,
И вы, мундиры голубые,
И ты, послушный им народ.
Быть может, за стеной Кавказа
Укроюсь от твоих пашей,
От их всевидящего глаза,
От их всеслышащих ушей.


(Михаил Лермонтов, 1840)
Ascolta la poesia, declamata in versione originale

Addio sporca Russia,
Paese di schiavi, paese di padroni,
E voi, uniformi azzurre *,
e tu, popolo che li ascolta.

Forse dietro le mura del Caucaso
mi nasconderò dai tuoi pascià,
dai loro occhi che tutto vedono,
dalle loro orecchie che tutto ascoltano.

* si riferisce al colore delle uniformi della polizia, che perseguitava il popolo n.d.r.

Lermontov era personaggio scomodo. Veniva dalla cultura romantica, che in Russia arrivò con un'”ondata” successiva al Romanticismo europeo occidentale. Il che non vuol dire che gli esponenti del romanticismo russo fossero inferiori, come statura lirica, a quelli del Romanticismo tedesco (su tutti, ovviamente Johann Wolfgang von Goethe, Friedrich von Schiller e Heinrich von Kleist).

Anche il Romanticismo italiano arrivò in ritardo, rispetto a quello originario tedesco, ma anche in Italia abbiamo avuto esponenti che sono entrati nell’Olimpo della letteratura mondiale universale (Leopardi, Foscolo).

Ma torniamo a Lermontov. Dicevo, personaggio scomodo, si diceva allora scapigliato (“spettinato”, la parola deriva dall’opposizione al termine di “parruccone”, che invece rappresentava gli illuministi settecenteschi delle persone che indossavano le parrucche incipriate).

Amori passionali con le donne “sbagliate” (magari donne di uomini potenti), deluso dalla vita, lasciato solo e abbandonato dagli amici. Perseguitato dal potere, che non aveva piacere a vedere questi scapigliati che “pretendevano” di fare i poeti e gli intellettuali “bohémiens”.

Il potere decide di esiliare il poeta nel Caucaso. È il 1841. Poco dopo il poeta morirà, ma farà appena in tempo a lasciarci questi versi che sono, ancora oggi, tremendamente attuali.

Il potere russo, dato dal dispotismo delle “divise azzurre”, la polizia. L’identificazione dello stato russo, come un colosso dai piedi di argilla, che non è nemmeno in grado di “arginare” (leggasi, controbattere con argomenti circostanziati) le critiche di un giovane poeta intellettuale, se non quello di mettere a tacere la sua voce dissonante. Insomma, in otto versi c’è la sintesi della Russia dall’Ottocento a oggi.

La metafora della “Russia sporca”, che rappresenta il paese contadino, provinciale, che dà sempre retta al potere e vive la sua vita a prescindere da chi comanda a San Pietroburgo (ieri) e a Mosca (oggi). Un paese che non può essere “ripulito”, e che quindi è sporco, dal giogo secolare della schiavitù (ieri) e della genuflessione indiscriminata al potere (oggi). Non solo nell’esteriorità delle condizioni di vita, ma anche nell’anima. In questo paese sono tutti schiavi: dai contadini, ai poliziotti, che s’inchinano ai superiori e a loro volta vessano i sudditi, perseguitandoli e sfogando su di loro le loro repressioni. L’assenza di volto e la rigidità della società russa sono enfatizzate dall’uso della metonimia (si indica la parte per il tutto). Invece della frase “gendarmi in uniforme azzurre”, il poeta usa l’espressione “uniformi azzurre”, indicando che nella società russa la persona umana è praticamente distrutta, ridotta alla posizione occupata dall’uno o dall’altro suddito di Sua Maestà lo Zar di tutte le Russie.

Un’altra immagine evocativa è quella dei Pascià, che stanno a indicare la profonda anima orientale che è insita nella cultura russa, ma anche il despotismo che contraddistingue chi domina (ieri e oggi).

Nella poesia, che è costruita secondo il classico tetrametro giambico della poesia russa, c’è l’allitterazione della lettera “r”, che denota la rabbia del poeta, il suo tormento e la sua delusione. Pochi mesi dopo aver scritto questa poesia, Lermontov morirà infatti in esilio nel Caucaso.

Per ovvie ragioni di censura, la poesia di Lermontov non fu mai pubblicata, né nei pochi mesi in cui il poeta rimase in vita, né dopo, postuma (la pubblicazione ufficiale è del 1887, cioè 46 anni dopo la morte del poeta). Tuttavia questi versi si diffusero lo stesso rapidamente tra i giovani intellettuali degli anni Quaranta dell’Ottocento, che criticavano il regime dispotico zarista, come spesso accadde, e accade ancora oggi, nel caratteristico tam tam russo che si diffonde sotto la melma della “nomenklatura” di tutte le epoche (dall’epoca sovietica a oggi).

Tanto per dire, quarant’anni fa erano le canzoni di Bulat Okudzhava (che io ho studiato all’Università) e quelle di Vladimir Vysockij, che tutti i russi conoscevano, salvo poi bisbigliarsele nelle serate con la chitarra, specie se c’erano i vicini di casa che origliavano dalle pareti (di cartone) delle case sovietiche piene di tarakany, i proverbiali scarafaggi di cinque centimetri che ti correvano sul piatto della doccia in qualsiasi casa sovietica.

Ma la poesia di Lermontov, nel denunciare la propria delusione, grida ad alta voce l’amore sincero per la Russia come Madre, la sua natura, la sua bellezza e i suoi costumi: Lermontov fu un fervente patriota, nonostante i suoi rapporti con le autorità.

L’eroe lirico della poesia è triste e deluso, è perso e oppresso. Una sorprendente antitesi è il confronto tra la Russia “sporca” e l’orgoglioso Caucaso libero. La Patria meritava un epiteto così offensivo, perché impantanata in menzogne, servitù, denunce e servilismo.

Due sole quartine sono capaci di riassumere un’intera epoca (e anche il presente) e una descrizione della società dell’Ottocento. Nella prima strofa il poeta dice addio a tutto ciò che lo infastidisce, in questi versi si sentono dolore e delusione. Nella seconda strofa, l’eroe lirico esprime una vaga speranza di trovare il suo posto “dietro le mura del Caucaso”, dove non c’è una disgustosa visione del mondo e le fondamenta caratteristiche di Mosca e San Pietroburgo (“occhi onniveggenti e orecchie che ascoltano tutto”).

Tutti i russi, dal primo all’ultimo, conoscono questi versi, ancora oggi. Quando si dice che la poesia è immortale, si dice una verità universale. A maggior ragione se in otto versi si riesce a condensare l’anima e la storia di un popolo, un governo e una nazione. Attraverso i secoli.