A dieci anni dal terremoto della Bassa Modenese, non è tutto rose e fiori

la chiesa del voto di modena in via emilia centro dopo il terremoto del 29 maggio 2012

Sono passati già dieci anni. E meno male che stiamo in salute, e che possiamo raccontarla. Sia di quanto accadde dieci anni fa, sia per quanto attiene ai commenti dell’anniversario a cifra tonda. Primo punto.

La prima scossa 5.9 (era 6.1, ma fu ridotta dall’INGV per pagare meno danni) delle 4,02 di notte del 20 maggio 2012 coglie di sorpresa tutti i cittadini della Bassa Modenese e coinvolge anche il capoluogo, dove io ho abitato per diciotto anni, fino al 2013.

Come ricorderà chi era a Modena quel weekend, era un sabato mattina. La sera precedente, quindi venerdì sera fino a notte fonda, c’era stata La Notte Bianca, se non ricordo male secondo esperimento del genere nella città che è stata la mia casa per tanti anni. Ma il primo esperimento della Notte Bianca dell’anno precedente era stato poco seguito, mentre quel secondo anno, ci fu un grande successo.

Io ero stato in giro fino alle 3 di notte e ricordo una città viva, spumeggiante, come lo spumantino o prosecchino che scorreva tra le piazze ricolme di giovani, concertini per strada e nelle piazze. Modenesi e persone arrivate dalle città circostanti, città piena e finalmente una manifestazione che non aveva visto incidenti e i soliti scemi che si mettevano a “giocare” con i cocci delle bottiglie di vetro (come invece accadeva puntualmente tutti i Capodanni in Piazza Grande).

Voglio dire, io ero modenese, seppur di adozione. Diciotto anni non sono bruscolini e, tra l’altro, vivevo in pieno centro storico.

Essendo andato a letto alle 3 di notte, avevo appena preso sonno. Dopo un’ora, alle 4,02, mi svegliai di soprassalto, col letto che vibrava e si spostava. Mi alzai di scatto andai in sala e accesi la luce e vidi i contrafforti del mio appartamento, vibrare forte, come fossero di cartongesso. Stabile in pieno centro storico, costruito nel 1621 (c’è la targa, ancora oggi). Per fortuna restò tutto in piedi, anche se avemmo danni per una dozzina di migliaia di euro alle scale interne condominiali. Tanta paura. E poi le successive scosse “di assestamento”, che arrivavano a 4.0 e oltre, tutti i giorni.

La sommità della Chiesa del Voto di Modena, in Via Emilia Centro, dopo il terremoto del 29 maggio 2012

Il 29 maggio, nove giorni dopo, la scossa ancora più tremenda, almeno per chi stava a Modena, perché ancora più vicina al capoluogo, quella delle nove precise del mattino. Venne giù la palla della Chiesa del Voto, in Via Emilia Centro. Sfiorò una signora, poteva essere una strage, andò bene.

Da allora, passai svariate notti nel mio garage, rannicchiato nel bagagliaio della mia piccola 500, dopodiché, decisi di tornare per un periodo in Toscana.

Il terremoto della Bassa Modenese però fu anche uno spartiacque dal punto di vista della percezione della comunità emiliana di fronte ai prevedibili problemi che ci furono nella ricostruzione. Non è questa la sede per parlare di politica, nemmeno in senso lato, e anche se nel decimo anniversario del sisma modenese sentiremo parlare della tradizionale efficienza emiliana, col faccione del presidente della Regione che s’intesterà trionfalismi, poi se vai a parlare con la gente del posto, ancora oggi, ti ridono in faccia: ci sarà pure una ragione per cui da allora la “sinistra” fa sì e no fatica a raggranellare i suoi voti (e in numerosi comuni abbia ceduto lo scettro del potere, cosa un tempo impensabile).

E questo non è un giudizio, ma pura analisi.

Gilles Villeneuve e quella riunione col Drake, prima dell’ultimo Gran Premio di Zolder

GIlles Villeneuve, in una pausa ai box del Gran Premio di Montecarlo

Nei giorni scorsi, l’8 maggio 2022, si è celebrato il 40° anniversario della scomparsa di Gilles Villeneuve, grande e indimenticato pilota della Ferrari di fine anni Settanta e inizio anni Ottanta.

Scompariva in un venerdì anonimo di primavera uno dei più grandi piloti della storia della Formula 1. È sempre difficile fare classifiche, soprattutto quando si comparano sportivi che hanno gareggiato in epoche diverse su mezzi diversi e la stessa cosa vale anche per altri sport, come ad es. il calcio, dove ancora si dibatte se Maradona sia davvero stato meglio di Pelé. Non sarò certo io a dipanare le dispute, né peraltro sono un pilota, tale da poter giudicare la tecnica di guida di questo o quell’altro pilota.

Ho però letto e sentito racconti di prima mano, anche dal vivo, di persone che hanno conosciuto di persona Gilles, come tutti i veri ferraristi lo chiamavano e lo chiamano ancora oggi. Di Gilles ce n’è stato solo uno e non ce ne sarà mai nessun altro, quantomeno nei cuori di tutti i tifosi della “rossa”.

Di lui si è detto che era spericolato, tant’è vero che il suo soprannome era “l’Aviatore”, perché più di una volta era letteralmente volato non solo sull’asfalto, ma anche sopra l’asfalto. Quando il Destino è beffardo, capita che riservi dei veri e propri appuntamenti con la Storia e l’ironia della sorte volle che quell’8 maggio di quarant’anni fa, l’8 maggio 1982, Villeneuve prendesse il volo, prima con la sua auto, che tamponò Jochen Mass, che si era spostato sulla destra per farlo passare durante le prove, poi essendo sbalzato fuori dall’abitacolo dell’auto, per atterrare sulle reti metalliche di protezione del circuito di Zolder.

Su questo, come su altri incidenti fatali nel mondo della Formula 1, se ne sono dette di tutti i colori, finanche incolpare il povero Mass, che aveva vistosamente rallentato, poiché aveva già completato il suo giro di qualifica (cosa che oggi sarebbe fuori regolamento, il rallentare di colpo anche durante le prove) e poi si spostò sulla destra per far passare Villeneuve, che invece era in piena bagarre per ottenere la pole position.

Erano altri tempi. Sono tutti filmati che abbiamo visto alla Domenica Sportiva, ma con le immagini del dopo incidente oscurate dalla RAI di allora. E anche le prove, a quei tempi, non venivano trasmesse in diretta televisiva, come oggi. La notizia arrivò nel pomeriggio, per poi diffondersi capillarmente col passaparola. Solo alla sera il telegiornale dette la notizia ufficiale, ma senza speciali TV, senza rallentatori dei filmati, senza moviola, senza interviste. Ripeto, erano altri tempi e solo pochi anni dopo, il 2 maggio 1994, vedemmo una copertura mediatica per l’incidente mortale di Senna del tutto diversa e già globalizzata.

Pochi sanno però che dopo il Gran Premio di Imola, quello precedente di Zolder, dove poi Villeneuve perse la vita, ci fu un incontro il lunedì mattina tra Villeneuve, Jody Scheckter e il Drake, alias Enzo Ferrari a Maranello.

Si discusse il celebre episodio in cui Pironi sorpassò Villeneuve, contravvenendo agli ordini della scuderia di Maranello, con quel famoso cartello “Slow”, che fu da tutti interpretato come “mantenere le posizioni” (con Villeneuve davanti e Pironi dietro), mentre l’unico che fece finta di non capirlo fu proprio il pilota parigino, che superò Villeneuve e creò una delle più grandi diatribe della storia della Formula 1 degli ultimi cinquant’anni. Anche per come andarono poi le cose, appunto.

Quanto fosse deluso Villeneuve dopo quel Gran Premio è cosa nota ed è stata ricordata da numerosi documentari che hanno rievocato sia la carriera di Gilles, che il suo abbraccio col Destino su quella rete metallica.

Ma l’incontro “chiarificatore” col Drake è un episodio a cui molti non danno peso, nel giudicare lo stato d’animo di Gilles prima di Zolder, perché Ferrari alle rimostranze di Gilles, spalleggiato dall’ex compagno di squadra Scheckter, rispose con le celebri parole:

“Chi ha vinto a Imola? Una Ferrari?
A me sta bene così”

(Enzo Ferrari, dopo il Gran Premio di Imola 1982)

Che Enzo Ferrari abbia sempre pensato sempre e solo alla Ferrari e mai ai piloti è cosa arcinota, tant’è vero che per altre ragioni, ma similari, se sottintendiamo l’egoismo del Drake, anche Niki Lauda fece le spese di questo carattere come minimo ruvido del Cavaliere di Modena.

Ok, siamo al senno di poi e al fantacorse. Ma quanto ebbe influenza, nel cuore di Gilles, quella risposta di Ferrari che lo fece sentire tradito per la seconda volta, dopo il tradimento di Pironi? Per di più ad opera di chi lo doveva difendere, quando anche tutta la scuderia aveva dato l’ordine di mantenere le posizioni acquisite?

Difficile dire come si potesse sentire Gilles. Tradito, umiliato e offeso. Lui che quando era la seconda guida di Scheckter aveva sempre rispettato i patti, da “bravo ragazzo” acqua e sapone e ora, che era diventata la prima guida della Ferrari, era costretto a sopportare le bizze di un giovane pilota rampante e di buona famiglia, come Pironi, e a subire la reprimenda del Cavaliere, a cui interessava solo della macchina, dimenticando l’Uomo Gilles.

Siegfried Stohr ricorda l’episodio della riunione tra il Drake e Gilles

Non ci sono risposte per questi dubbi. Restano due considerazioni.

La prima è che quello che tutti dicono ancora oggi di Gilles è che era un Uomo ricco di Valori, di Onore, di Lealtà, quasi un samurai d’altri tempi.

La seconda è che Ferrari tutto questo stinco di santo non era. Che ha pensato sempre e solo alla Ferrari e mai si è messo nei panni dei suoi piloti, che considerava solo delle pedine.

Personalmente è un buon motivo per far scendere Enzo Ferrari dall’Olimpo delle glorificazioni dello sport italiano.

L’esperienza interiore della battaglia da assediato

la copertina del libro di ernst jünger, la battaglia come esperienza interiore, 1922 Piano B

Non ci inventiamo nulla, nemmeno nel 2022. Tutte le emozioni, tutte le sensazioni provate da un essere umano hanno già trovato espressione nel passato.

L’esperienza interiore della battaglia è stata descritta subito dopo la Prima Guerra Mondiale da Ernst Jünger, in un libriccino di cento pagine, “La battaglia come esperienza interiore” (titolo originale: “Der Kampf als inneres Erlebnis”, 1922) o poco più che è disponibile anche su Amazon.

È il libro di un ufficiale dell’esercito imperiale germanico, l’autore, appunto. Uscito fresco, fresco a pochi anni di distanza dalla disfatta tedesca nella Grande Guerra, è un libro caleidoscopico, descrittivo degli stati d’animo di un soldato (colto, già scrittore prima che iniziasse la guerra e decidesse di partire volontario per il fronte). Il linguaggio è crudo, non volutamente crudele, solo asetticamente descrittivo, ma estremamente eloquente di ciò che significa ritrovarsi in guerra.

Pensavamo tutti che certe descrizioni potessero appartenere al passato, quantomeno in Europa, anche se alla fine dello scorso secolo, la guerra in Bosnia ci aveva già dato una dimostrazione di che cosa significhi assuefarsi alle fosse comuni e ai massacri. Ma tralasciando il passato, in questi mesi stiamo rivivendo sul suolo europeo le stesse descrizioni, che ci vengono fatte dai grandi giornalisti, inviati sul territorio, come Lorenzo Cremonesi, Francesca Mannocchi e altri ancora.

In questi giorni mi viene in mente che i ragazzi del battaglione Azov sono asserragliati all’interno dei sotterranei dell’acciaieria Azovstal, fino a poco tempo fa la più grande acciaieria d’Europa e che oggi potrebbe diventare la nuova Srebrenica di inizio secolo, come già Bucha, solo poche settimane fa.

La battaglia rientra nelle grandi passioni. Devo ancora vedere qualcuno che non si lasci scombussolare dal momento del trionfo. Sarà così anche domani, quando, dopo una breve lotta all’ultimo sangue, dopo aver scatenato strumenti raffinatissimi, dopo aver messo in campo le forze gigantesche di cui è capace l’uomo moderno, fisseremo il brulichio della forra. Allora sì che uscirà dalla bocca spalancata di uno di noi quel grido folle e protratto che ci è spesso riecheggiato nelle orecchie. È un canto antico e tremendo, che risale all’alba dell’uomo: nessuno avrebbe mai pensato che fosse ancora così vivo in noi.

Ernst Jünger ci descrive i momenti prima dell’assalto, le battute scherzose tra i soldati, la sensazione di cameratismo che fa stringere legami profondi con altri giovani uomini che potrebbero scomparire dopo soli cinque minuti. Jünger ci descrive l’odore del sangue, gli schizzi, la cedevolezza dei cadaveri in putrefazione sotto gli stivali, mentre si cammina sul terreno fangoso.

L’accerchiamento. L’essere ormai in trappola, proprio come sta accadendo in queste ore ai ragazzi del battaglione Azov. Senza nemmeno poter combattere, con quel grido atroce che prelude la battaglia, perché i soldati nemici hanno deciso di assediarli per fame, secondo metodi medievali che pensavamo ormai appartenenti al passato.

A testa alta, lasciamo sventolare i nostri pensieri al vento. Morire come si deve, questo sì che lo possiamo fare: andare incontro al buio minaccioso con audacia battagliera ed energia vitale. Non lasciarsi spiazzare, sorridere fino alla fine e che il sorriso sia la nostra maschera. È già qualcosa.

Il massimo per l’essere umano è morire da valoroso. Gli dèi immortali devono invidiarlo per questo.

Doniamo un solo pensiero ai ragazzi della Azov, che sono asserragliati all’interno dell’acciaieria e aspettano solo il loro Destino. Certo, i morti stanno da entrambe le parti, e i morti in battaglia sono comunque sangue che cola di giovani uomini, mandati a morire, sia che siano dalla parte dei vittoriosi, che degli sconfitti.

Ma non si può non stare dalla parte di chi è stato aggredito vigliaccamente, dopo che il dittatore Putin ha deciso di prendersi gioco del mondo interno, compreso dei suoi soldati.